Letteratura

Ovidio Metamorfosi, XIII, 924 e sgg


924 sunt viridi prato confinia litora, quorum
925 altera pars undis, pars altera cingitur herbis,
926 quas neque cornigerae morsu laesere iuvencae,
927 nec placidae carpsistis oves hirtaeve capellae;
928 non apis inde tulit conlectos sedula flores,
929 non data sunt capiti genialia serta, neque umquam
930 falciferae secuere manus; ego primus in illo
931 caespite consedi, dum lina madentia sicco,
932 utque recenserem captivos ordine pisces,
933 insuper exposui, quos aut in retia casus
934 aut sua credulitas in aduncos egerat hamos.
935 res similis fictae, sed quid mihi fingere prodest?
936 gramine contacto coepit mea praeda moveri
937 et mutare latus terraque ut in aequore niti.
938 dumque moror mirorque simul, fugit omnis in undas
939 turba suas dominumque novum litusque relinquunt.
940 obstipui dubitoque diu causamque requiro,
941 num deus hoc aliquis, num sucus fecerit herbae:
942 "quae tamen has" inquam "vires habet herba?" manuque
943 pabula decerpsi decerptaque dente momordi.
944 vix bene conbiberant ignotos guttura sucos,
945 cum subito trepidare intus praecordia sensi
946 alteriusque rapi naturae pectus amore;
947 nec potui restare diu "repetenda" que "numquam
948 terra, vale!" dixi corpusque sub aequora mersi.
949 di maris exceptum socio dignantur honore,
950 utque mihi, quaecumque feram, mortalia demant,
951 Oceanum Tethynque rogant: ego lustror ab illis,
952 et purgante nefas noviens mihi carmine dicto
953 pectora fluminibus iubeor supponere centum;
954 nec mora, diversis lapsi de partibus amnes
955 totaque vertuntur supra caput aequora nostrum.
956 hactenus acta tibi possum memoranda referre,
957 hactenus haec memini, nec mens mea cetera sensit.
958 quae postquam rediit, alium me corpore toto,
959 ac fueram nuper, neque eundem mente recepi:
960 hanc ego tum primum viridem ferrugine barbam
961 caesariemque meam, quam longa per aequora verro,
962 ingentesque umeros et caerula bracchia vidi
963 cruraque pinnigero curvata novissima pisce.
964 quid tamen haec species, quid dis placuisse marinis,
965 quid iuvat esse deum, si tu non tangeris istis?'
966 talia dicentem, dicturum plura, reliquit
967 Scylla deum; furit ille inritatusque repulsa
968 prodigiosa petit Titanidos atria Circes.

Al margine di un prato verde c'è una spiaggia:
su questa si riversa il mare, il prato è coperto di un'erba
che nessuna giovenca selvatica ha mai violato coi suoi morsi,
che voi, placide pecore o irsute caprette, avete mai brucato.
Mai lì, col loro zelo, le api colsero dai fiori il polline,
mai lì si son fatte ghirlande per le feste, mai una mano armata
di falce vi è passata. Io fui il primo a sedermi
su quelle zolle, mentre facevo asciugare le reti bagnate,
e per contarli in bell'ordine sopra vi disposi
i pesci catturati, quelli che il caso aveva sospinto
nelle reti o la loro ingenuità sugli ami adunchi.
Parrebbe un'invenzione, ma inventare che mi gioverebbe?
a contatto con l'erba, la mia preda cominciò ad agitarsi,
a mutar lato e a guizzare sulla terra come fosse nell'acqua.
E mentre trasecolo impietrito, l'intero branco
si rituffa nel mare abbandonando la spiaggia e il nuovo padrone.
Rimango attonito, a lungo in dubbio e cerco la causa:
se opera sia stata di un nume o del succo di un'erba.
"Ma quale erba può avere questo potere?" mi dico, e con la mano
ne colgo un ciuffo e, quando l'ho colto, lo mordo con i denti.
La gola aveva appena assorbito quel succo misterioso,
che improvvisamente sentii dentro di me un'agitazione
e in petto il desiderio travolgente di un'altra natura.
Non potei resistere a lungo. "Addio, terra, addio!" dissi.
"Mai più ti cercherò!" e con tutto il corpo mi tuffai sott'acqua.
Gli dei del mare mi accolsero, onorandomi come loro pari,
e pregarono Oceano e Teti di togliermi ciò che di mortale
potevo ancora avere. Purificato sono da loro
che, pronunciata la formula contro le impurità nove volte,
ordinano che ponga il mio petto sotto il getto di cento fiumi.
E di colpo fiumi scendono da ogni parte
e mi rovesciano addosso un diluvio d'acqua.
Questo è tutto ciò che posso narrarti di quell'evento incredibile.
Solo questo ricordo: di altro non serbo memoria.
Quando rinvenni, mi sentii diverso in tutto il corpo,
diverso da com'ero, e mutato persino nella mente.
Allora mi accorsi di questa barba color verderame,
di questa chioma che trascino sulle distese del mare,
di queste grandi spalle, delle braccia azzurre
e delle gambe che attorcigliate terminano in pinne di pesce.
Ma che mi serve questo aspetto, l'esser piaciuto agli dei marini,
essere un dio, se tutto ciò ti lascia indifferente?". Stava ancora
parlando, e avrebbe detto di più, se con sdegno Scilla
non l'avesse abbandonato. Lui s'infuriò e irritato dal rifiuto
si diresse verso il palazzo incantato di Circe.




Omero - Odissea Libro Dodicesimo (77-100)

Sì liscio è il sasso e la costa superba.
Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,
S'apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar; giovane arciero
Che dalla nave disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l'incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell'incavato
Speco profondo ella s'attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que' mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.


οὐδέ κεν ἀμβαίη βροτὸς ἀνὴρ οὐδ᾽ ἐπιβαίη,
οὐδ᾽ εἴ οἱ χεῖρές τε ἐείκοσι καὶ πόδες εἶεν:
πέτρη γὰρ λίς ἐστι, περιξεστῇ ἐικυῖα.
μέσσῳ δ᾽ ἐν σκοπέλῳ ἔστι σπέος ἠεροειδές,
πρὸς ζόφον εἰς Ἔρεβος τετραμμένον,  περ ἂν ὑμεῖς
νῆα παρὰ γλαφυρὴν ἰθύνετε, φαίδιμ᾽ Ὀδυσσεῦ.
οὐδέ κεν ἐκ νηὸς γλαφυρῆς αἰζήιος ἀνὴρ
τόξῳ ὀιστεύσας κοῖλον σπέος εἰσαφίκοιτο.
ἔνθα δ᾽ ἐνὶ Σκύλλη ναίει δεινὸν λελακυῖα.
τῆς  τοι φωνὴ μὲν ὅση σκύλακος νεογιλῆς
γίγνεται, αὐτὴ δ᾽ αὖτε πέλωρ κακόν: οὐδέ κέ τίς μιν
γηθήσειεν ἰδών, οὐδ᾽ εἰ θεὸς ἀντιάσειεν.
τῆς  τοι πόδες εἰσὶ δυώδεκα πάντες ἄωροι,
ἓξ δέ τέ οἱ δειραὶ περιμήκεες, ἐν δὲ ἑκάστῃ
σμερδαλέη κεφαλή, ἐν δὲ τρίστοιχοι ὀδόντες
πυκνοὶ καὶ θαμέες, πλεῖοι μέλανος θανάτοιο.
μέσση μέν τε κατὰ σπείους κοίλοιο δέδυκεν,
ἔξω δ᾽ ἐξίσχει κεφαλὰς δεινοῖο βερέθρου,
αὐτοῦ δ᾽ ἰχθυάᾳ, σκόπελον περιμαιμώωσα,
δελφῖνάς τε κύνας τε, καὶ εἴ ποθι μεῖζον ἕλῃσι
κῆτος,  μυρία βόσκει ἀγάστονος Ἀμφιτρίτη.
τῇ δ᾽ οὔ πώ ποτε ναῦται ἀκήριοι εὐχετόωνται
παρφυγέειν σὺν νηί: φέρει δέ τε κρατὶ ἑκάστῳ
φῶτ᾽ ἐξαρπάξασα νεὸς κυανοπρῴροιο.




L'anima della Calabria, di Kazimiera Alberti 






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